Umano – è giusto un cuore? 2014
MA Napoli
L’arte e la vita
di Dario Giugliano
I rapporti tra arte e natura sono notoriamente complessi. A una prima evidenza, i due termini, con le relative catene concettuali cui rinviano, sono su versanti diametralmente opposti. Per definizione, infatti, ciò che è naturale non si dà mai per arte e viceversa.
Il primo, nell’ambito del pensiero occidentale, a indagare in maniera sistematica questo complesso di relazioni, è stato Aristotele, il quale ci ricorda che “l’arte imita la natura”. Su questa frase si è detto e scritto di tutto. Lungo i secoli, la si è interpretata alla lettera, intendendo che l’arte è una forma di rappresentazione imitativa delle bellezze naturali, ovvero la si è intesa come descrizione di un’analogia di processi, soprattutto laddove si voleva tentare di emancipare la pratica artistica dalla meccanicità di una condizione mimetica. In questo secondo senso, si è pensato all’arte come forma di imitazione dei processi creativi naturali: come la natura crea, altrettanto fa l’arte. In un modo o nell’altro, comunque si creano delle derivazioni gerarchiche ovvero obbedienze a modelli di riferimento. Ancora il Kant della terza Critica, sul finire del XVIII secolo, ricorda come il genio, l’artista geniale, sia colui il quale è in grado di dare alla sua creazione, in quanto tale artificiale, una parvenza di naturalezza. Pensiero, quest’ultimo, possibile in quanto maturato sulla scorta di una paradossale separazione netta tra il versante naturale e quello dell’artificio. Né se ne esce se si considera ancora, come molta antropologia a noi coeva usa fare, la natura come condizione stessa di questa medesima separazione: se c’è una distinzione tra natura e artificio, tra mondo naturale e mondo dell’uomo è perché quella pone dei limiti a questo, che è ciò che è sempre e solo grazie a questi limiti. Da qui deriverebbe quel pensiero ecologico (Haeckel) come studio delle relazioni tra l’ambiente e i suoi abitanti (una sorta di economia dell’esistenza vista su scala amplissima) – e, si sa, una relazione è possibile che emerga sempre e solo in base a dei limiti tra soggetti che interagiscono, limiti che finiscono per costituire quei medesimi soggetti come tali. A partire da questa idea di fondo, ogni pensiero ecologico sarebbe sempre giustificabile sulla scorta di un certo finalismo, che a sua volta coglierà il suo indirizzo ultimo nella inevitabile necessità dell’estinzione della razza umana dal pianeta che abita.
Limite, soggetto, natura, artificio, sono tutti concetti che, se visti da una certa angolazione, sono in grado di condurre alcune tra le manifestazioni d’arte tipiche della nostra contemporaneità (penso qui a quelle commistioni tra arti visive che sfociano in quella forma d’espressione che tecnicamente viene definita installazione) a un dialogo con l’architettura, come esempio cardine dello stare dell’uomo nel mondo. L’essere umano è nel mondo perché lo abita. Da qui deriverebbe la radice di ogni condizione di “coltivazione” del dato naturale: la cultura come domesticazione degli spazi naturali. Da qui deriverebbe ogni principio di conflitto tra processi e ritmi autonomi, spontanei e forme di articolazione immaginate e gestite sulla base di esigenze prettamente umane.
E Anna Crescenzi e Renata Petti cominciano esattamente da qui. I loro lavori di installazione, spesso accompagnati da e intrecciati a operazione videografiche, partono sempre dall’esigenza dell’interrogazione di un momento di crisi ovvero della scelta della direzione da prendere nel momento in cui ci si è resi consapevoli dell’oltrepassamento di un punto di non ritorno, nei rapporti tra il soggetto e l’ambiente circostante. Ma, a ben vedere, l’origine – se si potesse dire così, semplicemente – di ogni possibilità di oltrepassamento è data da un’altra forma di separazione, quella tra organico e inorganico. Da questo punto di vista, il pensiero metamorfico del Romanticismo (penso a un autore come Novalis e a certe implicazioni del suo pensiero con l’antica tradizione ilozoista), che non a caso recupera quell’istanza della fiaba popolare, in cui un’idea di osmosi tra i regni animale, vegetale e minerale risulta essere costitutiva dei suo stessi fondamenti ultimi, può rivelarsi ricco di spunti di riflessione ancora oggi. In fondo, la possibilità di una separazione tra natura e artificio è data proprio da quella parallela di poter pensare di separare l’inorganico dall’organico, mutatis mutandis il vivente dal non vivente – separazione, quest’ultima, che si presenta come il vero orizzonte di riferimento di ogni estetica che voglia riconoscersi seriamente uno statuto filosofico di scienza critica come sistematica di sistemi.